“IO SONO DI QUELLI CHE PENSANO…“

“IO SONO DI QUELLI CHE PENSANO…“


«Io sono di quel­li che pen­sa­no e affer­ma­no che si pos­sa distrug­ge­re la mise­ria» — dichia­ra Vic­tor Hugo, duran­te l’Assemblea Nazio­na­le del 9 luglio 1849. Que­sta affer­ma­zio­ne ispi­ra e gui­da la sua mano nel­la ste­su­ra del monu­men­ta­le roman­zo I Mise­ra­bi­li, pro­trat­ta­si per ben dicias­set­te anni, dal 1845 al 1862.

Scrit­to­re per voca­zio­ne (“voglio esse­re o Cha­teau­briand o nul­la” — scris­se nel suo tac­cui­no a soli quat­tor­di­ci anni), gigan­te del pen­sie­ro e del­la let­te­ra­tu­ra di tut­ti i tem­pi, visio­na­rio poten­te, Vic­tor Hugo spe­se la sua lun­ga vita in una stre­nua lot­ta a favo­re dell’umanità. Capi­sal­di di que­sta lot­ta furo­no l’educazione per tut­ti, i dirit­ti dei bam­bi­ni, l’emancipazione del­le don­ne, la pace da rag­giun­ge­re tra­mi­te la crea­zio­ne degli Sta­ti Uni­ti d’Europa… Come si può non ama­re quest’uomo e come si fa a non sus­sul­ta­re, in que­sto momen­to sto­ri­co, di fron­te a tan­ta lun­gi­mi­ran­za poli­ti­ca e sociale?
Hugo vis­se una lun­ghis­si­ma vita, dal 1802 al 1885, immer­so nel­le vicen­de di una Fran­cia che, usci­ta appe­na dal fer­vo­re e dal san­gue del­la Rivo­lu­zio­ne – quel­la gran­dio­sa, com­bat­tu­ta al gri­do di Liber­té, Ega­li­té, Fra­ter­ni­té – e del Ter­ro­re, conob­be una secon­da rivo­lu­zio­ne nel luglio del 1830, i moti e le bar­ri­ca­te del ‘32 e una ter­za rivo­lu­zio­ne nel 1848; un col­po di sta­to nel 1851 con il ritor­no dell’Impero, il suo crol­lo nel ’70, la rivo­lu­zio­ne popo­la­re del­la Comu­ne… Di tut­ti que­sti even­ti, Hugo fu testi­mo­ne atti­vo, in cia­scu­no di essi si schie­rò, su cia­scu­no si espres­se. Elet­to sena­to­re nel 1876, diven­ne ico­na viven­te del­la Repub­bli­ca restau­ra­ta, incar­na­zio­ne degli idea­li uma­ni­ta­ri fran­ce­si, sim­bo­lo del­la lot­ta per i dirit­ti di tut­ti. Mor­to a ottan­ta­tré anni, fu ono­ra­to con impo­nen­ti fune­ra­li di Sta­to e tumu­la­to nel Panthéon.

Ne I Mise­ra­bi­li, con il qua­le pro­se­guia­mo il nostro viag­gio nel­la leg­ge, i valo­ri dell’autore sono incar­na­ti in un per­so­nag­gio bel­lis­si­mo, Mon­si­gnor Myriel, vesco­vo di Digne. Il suo ritrat­to è un pre­zio­so e meti­co­lo­so lavo­ro di cesel­lo che occu­pa il pri­mo libro del­la pri­ma par­te: quat­tor­di­ci (bre­vi) capi­to­li, let­ti i qua­li, Myriel, o come veni­va affet­tuo­sa­men­te sopran­no­mi­na­to, Mon­si­gnor Bien­ve­nue, ci sem­bra di cono­scer­lo da sem­pre e avrem­mo pia­ce­re di anda­re a tro­var­lo, per pas­sa­re un po’ di tem­po in sua com­pa­gnia: que­sta è la mae­stria del­la pen­na di Hugo!
Il fasci­no di Myriel, a nostro avvi­so, è che, una vol­ta inne­sca­ta la mic­cia dell’epopea, spa­ri­sce: sen­za Myriel, nul­la acca­dreb­be del­le mil­le due­cen­to pagi­ne del roman­zo, eppu­re lui non arri­va a occu­pa­re nean­che le pri­me cen­to. Di lui, alla fine, ritro­ve­re­mo solo due ogget­ti: ogget­ti, sen­za i qua­li, la sto­ria non avreb­be nean­che avu­to ini­zio. Ma vedia­mo come van­no le cose.

Myriel nasce ari­sto­cra­ti­co, nobil­tà di toga, immer­so nel lus­so e aman­te del­la bel­la vita. Fin dai pri­mi gior­ni del­la rivo­lu­zio­ne, emi­gra in Ita­lia per sal­var­si la vita. Al suo ritor­no, miste­rio­sa­men­te è pre­te e poi vesco­vo. Ma soprat­tut­to è san­to, vene­ra­to da tut­ti per la sua bon­tà, la sua umil­tà, il suo corag­gio, la sua straor­di­na­ria capa­ci­tà di imme­de­si­mar­si nel pros­si­mo, soprat­tut­to negli ultimi.
Vive pove­ra­men­te insie­me alla sorel­la e alla gover­nan­te, dà tut­to ai pove­ri; per sé tie­ne il mini­mo indi­spen­sa­bi­le più alcu­ne posa­te d’argento, anti­co retag­gio del­la sua nobiltà.
Myriel è uomo giu­sto e, soprat­tut­to per que­sto, ci interessa:
Non con­dan­na­va mai nul­la affret­ta­ta­men­te, sen­za tener con­to del­la cir­co­stan­za. Dice­va: «Vedia­mo per qua­le via è pas­sa­ta la col­pa». […] e pro­fes­sa­va aper­ta­men­te una dot­tri­na che si potreb­be rias­su­me­re press’ a poco così: «L’uo­mo ha sopra di sé la car­ne che è insie­me il suo far­del­lo e la sua ten­ta­zio­ne. Egli se la tra­sci­na die­tro e insie­me le cede. Deve sor­ve­gliar­la, con­te­ner­la, repri­mer­la, non obbe­dir­le se non in casi estre­mi. In que­st’ob­be­dien­za ci può esse­re anco­ra del­la col­pa; ma la col­pa com­mes­sa in que­ste con­di­zio­ni è venia­le. È una cadu­ta, ma una cadu­ta in ginoc­chio che può fini­re in pre­ghie­ra». (p. 17)

Quan­do l’uomo, dun­que, si muo­ve nell’ambito del­la leg­ge, quan­do si impe­gna a tene­re a bada le pro­prie pul­sio­ni nega­ti­ve, – quan­do, abbia­mo det­to qual­che tem­po fa, depo­ne una par­te del­la sua liber­tà a van­tag­gio di tut­ti – può anco­ra sba­glia­re, cer­to, ma la sua cadu­ta non sarà rovi­no­sa e defi­ni­ti­va, sarà piut­to­sto una cadu­ta in ginoc­chio, da cui potrà facil­men­te risol­le­var­si, tra­sfor­man­do­la in pentimento.
C’è una via per cui pas­sa una col­pa e que­sta via è spes­so tor­tuo­sa e lun­ga: per que­sto – sostie­ne Myriel – , «le col­pe del­le don­ne, dei fan­ciul­li, dei ser­vi, dei debo­li, degli indi­gen­ti, degli igno­ran­ti, sono le col­pe dei mari­ti, dei padri, dei padro­ni, dei for­ti, dei ric­chi e dei sapien­ti» e anco­ra: «A quel­li che non san­no, inse­gna­te più cose che pote­te; la socie­tà è col­pe­vo­le di non impar­ti­re l’i­stru­zio­ne gra­tui­ta, è respon­sa­bi­le del­la tene­bra che pro­du­ce. Quel­l’a­ni­ma è pie­na d’om­bra, ed ecco che com­met­te il pec­ca­to. Il col­pe­vo­le non è colui che com­met­te il pec­ca­to, ma colui che ha fat­to l’om­bra».
Risuo­na nel­le con­vin­zio­ni di Myriel il cre­do del suo auto­re, il qua­le, cam­pio­ne del Roman­ti­ci­smo, non ci pare sco­star­si di mol­to dal­le tesi dei nostri Illu­mi­ni­sti lom­bar­di… 

Ma come? Il Roman­ti­ci­smo non è esat­ta­men­te rea­zio­ne all’Illuminismo? Come pos­so­no coe­si­ste­re Bec­ca­ria e Hugo? Coglia­mo feli­ce­men­te l’occasione per dire ai ragaz­zi che i gran­di movi­men­ti del­la Sto­ria non van­no mai pen­sa­ti come il chiu­der­si di una vec­chia por­ta e l’aprirsi improv­vi­so di una nuo­va; non c’è mai una net­ta cesu­ra fra una for­ma di pen­sie­ro e l’altra (già lo scor­so anno lo abbia­mo det­to a pro­po­si­to del pas­sag­gio dal mito al logos). È una sem­pli­fi­ca­zio­ne bana­le fare coin­ci­de­re l’Illuminismo con la ragio­ne e il Roman­ti­ci­smo con il sen­ti­men­to: si usa, ma non è corretta!
Il Roman­ti­ci­smo è la poten­za che il desi­de­rio ha di rom­pe­re gli sche­mi; è l’affermazione deci­sa che la real­tà non può esse­re clas­si­fi­ca­ta in ogni sua mini­ma par­te, ma nel­la sto­ria del pen­sie­ro ci sono dei valo­ri tal­men­te soli­di da pas­sa­re intat­ti da un movi­men­to all’altro. Il sen­ti­men­to per i Roman­ti­ci non è irra­zio­na­le; la loro idea è che i sen­ti­men­ti vada­no pen­sa­ti: il sen­ti­men­to dice che la ragio­ne è qual­co­sa di più che clas­si­fi­ca­re, ma il Roman­ti­ci­smo non è cer­to la mes­sa al ban­do del pen­sie­ro razio­na­le, anzi il sen­ti­men­to è la for­za del pen­sie­ro che ha den­tro una pas­sio­ne. Tut­ti i gran­di Roman­ti­ci sono anche uomi­ni poli­ti­ci come i gran­di Illu­mi­ni­sti, ma se l’Illuminismo imma­gi­na­va un pro­gres­so pro­mos­so da rifor­me, il Roman­ti­ci­smo fa esplo­de­re la rivo­lu­zio­ne. E così la gran­de Rivo­lu­zio­ne fran­ce­se non è sta­ta inne­sca­ta dall’Illuminismo, ma cer­ta­men­te dall’Illuminismo den­tro cui, a un cer­to pun­to, esplo­de il Roman­ti­ci­smo. La Rivo­lu­zio­ne fran­ce­se sogna liber­tà, ugua­glian­za, fra­tel­lan­za: paro­le che sono il fon­da­men­to del nostro modo di vive­re; non è sta­ta un moto poli­ti­co, ma un cam­bia­men­to di pro­spet­ti­va uni­ver­sa­le. Oggi con faci­li­tà inneg­gia­mo alla liber­tà e all’uguaglianza, men­tre la pove­ra fra­tel­lan­za ha per­so mol­to del suo smal­to di un tem­po: per i Fran­ce­si sul­le bar­ri­ca­te la fra­tel­lan­za era inve­ce fon­da­men­ta­le, se è vero, come è vero, che i gran­di eroi roman­ti­ci non com­bat­te­ro­no solo per il pro­prio pae­se, ma anda­ro­no a com­bat­te­re e a mori­re per la liber­tà di tut­ti i pae­si sof­fo­ca­ti dal domi­nio straniero.

Hugo leg­ge e stu­dia Bec­ca­ria e diven­ta l’alfiere del­la abo­li­zio­ne del­la pena di mor­te: nel 1829 esce Ulti­mo gior­no di un con­dan­na­to a mor­te, con il qua­le – si leg­ge nel­la pre­fa­zio­ne dell’edizione del 1992 – Hugo “ade­ri­sce ai voti e agli sfor­zi degli uomi­ni gene­ro­si di tut­ti i pae­si che da anni s’adoperano ad abbat­te­re l’albero pati­bo­la­re, il solo che le rivo­lu­zio­ni non sra­di­ca­no. Ed è con gio­ia che a sua vol­ta vie­ne, lui meschi­no, a dare il pro­prio col­po di scu­re per fare più pro­fon­do il taglio che ses­san­ta­sei anni pri­ma, Bec­ca­ria lasciò sul vec­chio pati­bo­lo eret­to da seco­li sul­la cri­stia­ni­tà”: rara­men­te un libro ha can­ta­to un tale inno alla vita, un inno dove ragio­ne e sen­ti­men­to si strin­go­no nel più tena­ce degli abbrac­ci.  

È anco­ra Myriel a far­si por­ta­vo­ce, nel roman­zo, di que­sto for­te sen­ti­re di Hugo. Un gior­no, vie­ne con­dan­na­to a mor­te per omi­ci­dio un pove­ro sal­tim­ban­co. La vigi­lia del­la ese­cu­zio­ne, il cap­pel­la­no del­la pri­gio­ne si amma­la, men­tre il cura­to del vil­lag­gio decli­na l’invito a visi­ta­re il con­dan­na­to: è Mon­si­gnor Myriel ad assu­mer­si il com­pi­to. Con gio­ia si reca alla pri­gio­ne e assi­ste l’uomo per un gior­no e una not­te; lo accom­pa­gna fino alla ghi­gliot­ti­na e lo abbrac­cia. Così rac­con­ta Hugo:
Quan­to al vesco­vo, la vista del­la ghi­gliot­ti­na lo ave­va col­pi­to e ci mise mol­to tem­po a rimet­ter­se­ne. […] Si può con­si­de­ra­re con indif­fe­ren­za la pena di mor­te, si può non pro­nun­ciar­si, dire di sì e di no, fin­ché non si è vista con i pro­pri occhi una ghi­gliot­ti­na; ma quan­do se ne vede una, la scos­sa è vio­len­ta e biso­gna deci­der­si a pren­der par­ti­to pro o con­tro. Alcu­ni ammi­ra­no, come il De Mai­stre, altri ese­cra­no come il Bec­ca­ria. La ghi­gliot­ti­na è il con­cre­tiz­zar­si del­la leg­ge; essa si chia­ma puni­zio­ne, non è neu­tra e non vi per­met­te di rima­ner neu­tra­li. 

E così, con Mon­sieur Myriel-Hugo, abbia­mo intro­dot­to il pri­mo dei gran­di per­so­nag­gi del roman­zo: dopo di lui, ci occu­pe­re­mo solo di altri due, Jean Valjean e Javert, nono­stan­te le pagi­ne dei Mise­ra­bi­li sia­no abi­ta­te da tan­tis­si­me figu­re di rilie­vo.  Ma sono que­sti i tre pro­ta­go­ni­sti – nes­su­no più impor­tan­te degli altri – che dise­gna­no un trian­go­lo al cui cen­tro pul­sa la leg­ge, il suo spi­ri­to, la sua interpretazione.

(con­ti­nua)  



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